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Gipsy: Naomi Watts psicologa molto poco professionale

Yup, Netflix ne ha sfornata un’altra: Gipsy.

Protagonista la seconda australiana più favolosa del cinema, la dottoressa Naomi Watts (sorry, con Nicole Kidman non c’è gara) nei panni di una psicologa bona che non gliela fa a mantenere il distacco coi suoi pazienti.

Ne ha uno che si è appena lasciato sta malissimo è depresso? Ma perché non diventare amichetta della sua ex che lo sta facendo disperare e magari instaurare una relazione un po’ torbida e tendente al lesbo già dal primo frame? Che bella idea!

La Watts ha una vita apparentemente normale, una casa favolosa in un quartiere altrettanto, un bel lavoro, un marito belloccio (Billy Crudup), una bellissima figlia dal nome Dolly (potenzialmente affetta da disforia di genere, tema che mi auguro tratteranno in maniera carina, altrimenti NON LE SCRIVETE LE COSE) e un fisico di Cristo che sfoggia con nonchalance nei suoi completini. Però tutto ciò non le abbasta, e quindi si infila nelle vite dei suoi strani pazienti per uno scopo poco comprensibile.

Il pilot è un MAH continuo, non è brutto ma manco bello, i dialoghi non fanno schifo ma non sono interessanti, i personaggi uuuhh misteriosi non lo sono manco per niente ed è tutto un po’ gratuito, lento ed inneggiante allo sticazzi.

Insomma, si dovesse giudicare solo del pilot sarebbe un big no no.

 


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di Francesca Giorgetti

29 anni, ultimamente romana ma pratese per sempre. Appassionata a livelli patologici di serie tv e Maria De Filippi. Lavora in tv e scrive di serie anche su Io Veramente Guarda.

Glow: scaldamuscoli here we come!

Dopo Orange is the new black, Girls, Big Little Lies ed il compiantissimo Pretty Little Liars (spero che abbiate tutti pianto le vostre lacrime per il finale altrimenti vergognatevi), DIO GRAZIE sui nostri schermi è apparsa un’altra serie con un cast quasi totalmente femminile.

We’ve got the power, bitches!

Glow è ambietato negli anni ’80, parla di un gruppo di attrici mezze fallite che si trovano a lavorare per una serie tv delicatissima: Glorious Women Of Wrestling. Donne che fanno wrestling, appunto. E per farlo sono in calzamaglia, scaldamuscoli, costumini fucsia e con in testa quelle terribili fasce per capelli.

Protagonista quasi assoluta è Allison Brie, che i più nerd spero ricorderanno per quel capolavoro bistrattato di Community. Di strada la dottoressa ne ha fatta, ma più che altro ha perso kg di cui almeno 6 nelle tette. You go girl!

La prima scena del pilot è già una delle cose più belle scritte in questa stagione e, da sola, vale la visione della puntata.

Se però non vi bastasse, sappiate che ci sono diversi altri motivi, primo fra tutti i costumi, ovviamente. Sono tutte delle piccole Jennifer Beals in Flashdance ed è un attimo che quegli outfit improbabili tornano di moda quindi stiamo tutti molto, molto attenti.

Per una botta di femminismo e per una televisione migliore, recuperatene.

La trovate su Netflix dal 23 giugno ed è tutto un sacco colorato!

 


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The O.C: i ricchi, quelli veri coi probbblemi

Correva l’anno 2003.

Eravamo orfani di Dawson’s Creek e Italia Uno ci sollazzava con le mirabolanti avventure di Seth, Summer, Marissa e Ryan.

Gente che all’epoca era favolosa e alla moda e un sacco figa, poi adesso che sono passati quattordici anni, rivedi il pilot e ti chiedi COSA COSA COSA avessero in mente i costumisti quando hanno vestito Summer per LA SFILATA DI BENEFICIENZA.

Quel vestitino a righe celesti rosa nero lilla verde e disagio, che nonostante tutto la faceva sembrare la più bona del west ed ha fatto un po’ storia.

Marissa coi jeans e i top che hanno fatto il giro e sono tornati di moda, come sempre accade.

Ryan e la sua canottiera bianca ed il giubbotto di pelle nero. In California, con 107 gradi all’ombra.

Seth che cercavano di far passare per sfigato ma attenzione perché lo hanno sempre saputo tutti che era l’unico bono nel cast.

E poi i genitori che hanno avuto le storyline più interessanti e torbide di tutti, specie la mamma quindicenne di Marissa, l’indimenticabile Julie Cooper.

L’epoca dei telefilm, e non delle serie tv come ci ostiniamo a chiamarli oggi, era davvero ma davvero magicissima amici.

Quando aspettavi una settimana per scoprire che fine avrebbe fatto Marissa, quando gli spoiler quasi non esistevano (per me che ero nerd e frequentavo i forum sì, ma per la gente normale tendenzialmente no), quando c’erano le ship.

Ora e sempre, R.I.P. Marissa.


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Girlboss: una storia vera di gente povera che diventa ricca.

Sophia Amoruso è una che in generale ne sa, o perlomeno ne ha saputo.

Nel 2014 è uscita la sua autobiografia Girlboss e da Netflix hanno chiamato Charlize Theron e le hanno detto: “ciao sei bellissima non è che ti va di produrre sta serie?”.

E così è uscita, appunto, #Girlboss.

La storia (vera ma un sacco romanzata) è di una ventitreenne completamente pazza, Sophia Amoruso, un po’ maniaca depressiva, un po’ cleptomane e a tratti bipolare che per sbarcare il lunario decide di iniziare a vendere cose vintage su Ebay (che ai tempi, nel 2007, era nel suo periodo più florido) e dal suo monolocale passa ad avere un’azienda tutta sua.

E Noi No.

L’ambientazione a San Francisco e la fotografia molto, molto smarmellata danno quel tocco un po’ kitsch ed ingiustificatamente anni ’70 a tutta la serie e si è sempre in bilico tra l’odiare follemente e l’amare abbastanza la protagonista interpretata da Britt Robertson, per la prima volta in versione castana e ancora più bona del solito.

Varrebbe la pena di vederla anche solo per la puntata quattro in cui c’è una citazione ad una certa scena di una certa puntata di The OC che è veramente da applausi.

Per il resto, venticinque minuti abbastanza trascurabili con qualche guizzo qua e là piuttosto divertente. In generale, però, “anche meno bastava” risuona potente ad ogni puntata, dove vogliono per forza farci ridere, per forza farci empatizzare e per forza lo sanno tutti che non si fa nemmeno l’aceto.


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American gods. Di tamarreide e trip sotto acido.

Questa cosa di adattare i romanzi e farcene delle serie sta un po’ sfuggendo di mano ai producer americani. Once again, hanno preso un libro ed ecco la nuova serie tamarra del mese: American Gods.

Stavolta ci sono di mezzo nientedimeno che gli dei, GLI DEI. Quelli delle mitologie di tutto il mondo che sono stati importati in America da tutti gli immigratih col wifi e che lo sceneggiatore cerca di spiegarci con un antefatto INCREDIBILE, AMICI.

Il protagonista della serie è Shadow Moon, un ex galeotto che viene fatto uscire di galera due giorni prima del previsto perché la moglie è morta in un incidente stradale mentre faceva “la respirazione bocca cazzo” (Cit.) all’amico del marito.

Nel volo verso il funerale, Shadow conosce un uomo che somiglia tanto, ma tantissimo, all’Al Pacino de L’avvocato del Diavolo. Di nome dice di fare Wednesday ed ha un sacco di poteri. Ovviamente è mega affascinante, pensa. Da lì, la vita di Shadow prende una piega quantomeno peculiare, tra leprechaun astiosi, ragazzetti nerd con drughi a seguito, omicidi, mufloni, trip e tante altre cose carine.

Durante tutto il pilot il pensiero costante è “maccheccavolostovedendo?” e ad ogni scena il basimento è sempre più potente. Per quel che mi riguarda, alla fine l’esclamazione è stata “vabbè APPLAUSI”.

Perché comunque il tamarro è sempre un bel vedere. 


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The Handmaid's Tale: distopia e femminismo

C’era una volta, nel 1985, un romanzo dal titolo “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood.

Qualcuno deve averlo letto e pensato “oh, non è nemmeno un po’ ansioso, facciamocene una serie tv”. E fu così che ad Hulu hanno deciso di produrre 10 episodi da 42 minuti.

Il concept è semplice ed inquietante: il mondo come lo conosciamo oggi non esiste più, esiste però una società che si è resa conto che le donne fertili sono pochissime. Perché allora non governare il tutto con un regime maschilista, estremista, cattivissimo, e schiavizzare le donne in grado di avere ancora bambini mettendole al servizio dei potenti in un mondo regolato da leggi tutte nuove e in cui le donne non contano più una mazza? MA CHE BELLA IDEA.

Il pilot è esteticamente splendido, i costumi sono perfetti nel rappresentare tutto il disagio che le ancelle sono costrette a vivere, tra stupri, violenze e lavaggi del cervello: indossano tuniche lunghissime rosse e cappelli che ricordano quelli delle suore, bianchi e coi paraocchi.

Tra tutte le ancelline, oltre ad una Rory Gilmore cresciuta, spicca la povera Offred, una FAVOLOSA Elisabeth Moss che sta zitta e buona solo per tentare di uscire da questo mondo orribile e recuperare sua figlia, rapita al primo frame del pilot. Peccato che ognuna di loro abbia un Eye, ovvero una spia, che ha il compito di controllare ogni minimo comportamento e denunciare eventuali stranezze.

Se ve la sentite di sobbarcarvi un immenso peso visivo, con questa fotografia che ti fa entrare violentemente nel mood Società Malata, guardatelo. In mezzo a tanta monnezza, un esercizio di stile così è una grandissima boccata d’aria. Pesante, ma bella.


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13 Reasons Why: il bullismo in America

Con 13 Reasons Why laggente in America sta impazzendo. Sembra quasi che si siano accorti solo ieri del fatto che il periodo del liceo sia LAMORTE. In questo caso, purtroppo, in senso letterale.

Hannah Baker è bellina, di una simpatia forzata che ti fa urlare “anche meno bastava” ad ogni piè sospinto ed è nuova in città. Già dal primo frame è chiaro che la povera ragazza si è suicidata dopo essere stata bullizzata. La colpa, a quanto dice lei, è semplicemente di TUTTI QUANTI.

Proprio per questo, Hannah decide di lasciare a mezzo liceo delle cassette registrate, obviously quando era in vita, per spiegare loro il perché dell’estremo gesto. Cassette che tutti dovranno ascoltare per capire che parte hanno avuto nel suo suicidio. Pare lecito dire che la gravità delle infinite situazioni in cui Hanna si ritrova e che racconta ai suoi compagni è piuttosto soggettiva e dipende molto, moltissimo dalla sensibilità di ognuno di noi.

Io soffro ad ogni scena perché in generale la vita la prendo male, ma molte delle cose che capitano ad Hannah succedono nella realtà, purtroppo, a qualunque ragazza dell’universo mondo. Non importa che indossi il cappellino di lana, le giacche da uomo, i pantaloni a zampa e uno zainetto da scema: qualcuno, prima o poi, le romperà i coglioni.

Proprio per questo del bullismo è NECESSARIO parlare, ora, sempre e per sempre. Ovviamente la seconda stagione è praticamente scontata, visto il successo d’iddio che sta riscuotendo la serie. Sarà contentona Selena Gomez che all’inizio doveva esserne protagonista, in caso il progetto fosse diventato un film, e che si è reinventata produttrice esecutiva una volta che Netflix si è accaparrata i diritti del romanzo da cui è tratto.

Vedetene ed angosciatevene.


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2 Broke Girls: outfit per sei stagioni molto pop

Sono sei anni che 2 Broke Girls, creatura di Michael Patrick King che già dette i natali al sempre attuale e sempre sobrio Sex & the City, gliel’ammolla.

Le divise giallo ocra e rosse di Max e Caroline sono ormai un outfit cult che ha ispirato mezzo mondo specie per sfangarla a carnevale e Halloween: infatti millemila fans ogni anno mi si travestono dalle due broke girls.

Oltre alle divise, quello che rimane forever in mente ad ogni puntata sono i vestiti e i tacchi e i cappelli e le borse di quella macchietta ambulante che è Sophie Kaczynski, interpretata MAGISTRALMENTE da Jennifer Coolidge che ad ogni entrata in scena scatena applausi ed ilarità generale nel pubblico che assiste alle riprese, manco fossero i gloriosi anni ’90.

I riferimenti pop attuali che più attuali non si può (roba che nei dialoghi sono inserite gag su cose realmente accadute in America 4 giorni prima, mica cazzi), le protagoniste perfette che tra l’altro si amano anche nella vita vera, e i personaggi secondari prevedibili quanto favolosi rendono i 25 minuti settimanali sempre incredibilmente godibili. E se il conteggio finale dei soldini che quelle due rintronate riescono a mettere da parte è ormai passato in secondo piano, vedere che ogni puntata riescono a sfangarla riempie sempre di gioia.

La settimana scorsa è andata in onda l’ultima puntata della sesta stagione e io voto per “six seasons and a movie”!


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The Good Fight: King siete i coniugi più belli di tutti

Non è passato molto dal lutto che ha invaso tutti noi per la fine di The Good Wife. Le avventurone di Alicia e del suo studio legale/lo studio legale degli altri/lo studio legale che era di tutti ci hanno accompagnato per sette anni e ogni stagione era, diciamocelo, meglio dell’altra. Abbiamo detto addio a tutti quanti e poi i King, spietati come solo loro sanno essere, hanno realizzato uno spin off dal sollazzante titolo The Good Fight. Che ha pure assonanza col benemerito, pensa che stronzi.

Il risultato è che tra noi è rimasta un’agguerritissima Diane Lockhart, da sempre uno dei pilastri dello show e personaggio bello, bello, bello interpretato da una forever bona Christine Baranski.

Adesso le redini di tutto pare averle proprio lei, sempre vestita benissimo coi suoi tailleur, sempre col suo short bob e con l’eleganza innata che la mannaggiallei contraddistingue.

Ad accompagnarla in questo spin off, la donna di Jon Snow, avvocata alle prime armi con babbo che nel pilot finisce in galera per un presunto Ponzi Scheme ai danni di mezza Chicago tra cui Diane e la cara vecchia Lucca, ex collega di Alicia. La mano dei King si sente, e pure tanto. Il fatto che la location sia la solita da quella botta di nostalgia che tanto ci piace e le premesse per una stagione di tutto rispetto ci sono.

Se avete amato follemente The Good Wife, vedetelo, ci sono anche un paio di chicche piangere. Se invece The Good Wife non l’avete visto, vergognatevi.

 

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Big little lies, c'è del marcio a Monterey

Prendi lo script di un pilot dai toni misteriosissimi basato su un libro, lancialo addosso a mezza Hollywood e aspetta che tutti si presentino sul set, una cittadina di mare pregna di gente ricca.

Ecco che spunta fuori, sulla HBO, Big Little Lies, un dramma che ha per protagoniste una Nicole Kidman in versione dimessa con un golfino marroncino a collo alto, capelli lisci lunghi rossi e frangia che però non riescono a nascondere la sua fastidiossissima bellezza; Reese Witherspoon tornata ai fasti di un tempo di Legally Blonde con vestitini e golfini; Shailene Woodley, classe NOVANTUNO che dopo aver recitato accanto a George Clooney è diventata una mezza dea; Zoe Isabella Kravitz, che Dio la benedica nonostante la zecca che è e ATTENZIONE, Laura Dern vestita come un’avvocatessa rabbiosa.

Tutte loro, in splendida forma, sono le madri di bambini e bambine che stanno per frequentare il primo giorno di scuole elementari, giornata dalla quale si scatenerà una serie di eventi che porteranno, pensa un po’, ad un omicidio.

Come in qualsiasi dramma che si rispetti, infatti, nella tranquilla cittadina abitata da famiglie perfette, c’è un marcio che veramente levatevi e dietro ogni storia si nascondono, manco a dirlo, Piccole Grandi Bugie. Pure quel bono di Alexander Skarsgard sembra buono e caro e poi toh, ultima scena e non è caro mai mai.  

Gli elementi per diventare una serie coi controcazzi ci sono tutti, una location bella, passati torbidissimi dei protagonisti (uno su tutti quello di Shailene, ultima arrivata in città), la HBO ed un cast che che ve lo dico a fare. Se siete curiosi di vedere come lo stylist non sia riuscito a rendere cessa Nicole neanche con tutto l’impegno del mondo, recuperatevi almeno il pilot.


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Breaking Bad: la droga e l'eleganza

Poche ma davvero poche sono le serie che come Breaking Bad hanno diviso quei mattacchioni del pubblico. Chi l'ha amato follemente venderebbe sua madre pur di dimenticarlo e rivederlo come se fosse la prima volta, e chi “meh sì bello eh per carità però è un po' sopravvalutato, no?” rischia la vita ogni volta che lo dice. 
Nell'immaginario di entrambe le categorie, però, rimarranno forever indelebili le tutine gialle e le maschere di Walter e Jesse. I due personaggi più fighi, più risolti e più tutto della storia della tv (sì, mia madre è in vendita).
Gli abiti in borghese di Jesse, poi, fanno volare altissimo specie quando va in giro con le magliette a maniche lunghe coi simbolini tribali che a fine anni '90 qua in italia potevi trovare sui libricini in regalo con Cioè e in cui noi svantaggiati di 12/13 anni mettevamo le orecchie alle pagine. Nessuno dei miei amici ha però mai comprato, mai qualcosa, ora che ci penso. Peccatone.
Walter in compenso da bravo professore di chimica era tutto un camicia-pantaloni-occhialini-mocassini fino a quando, in mutande, canottiera e grembiule non creava la dddrroga nel loro camper. Grazie raga, vi saremo sempre grati di tutta questa poesia e la lentezza della prima stagione in cui tutti tutti noi abbiamo fatto un sacco di fatica è indubbiamente servita a farci sentire ripagati appena sono entrati personaggi splendidi, commoventi, come Gus Fringe che pure con la divisa di Los Pollos Hermanos faceva la sua porca ed elegante figura. Certo, quando parlava spagnolo tu eri lì che pensavi al fatto che un corso intensivo lo poteva pure fare, il buon Giancarlo Esposito, però che ci frega, lui era favoloso sempre pure quando SPOILER gli scoppia metà faccia e pensa ad aggiustarsi la cravatta.

 


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A series of unfortunate events: colore e simmetria.

Netflix, allora è vero che volevi farti perdonare per quell'imbarazzo in 8 puntate che è di “The Oa”. Dillo che è per questo che hai tirato fuori, venerdì 13 in onore al tema della serie, “A series of unfortunate events”.

Sei stato molto caro, soprattutto perché oltre a Neil Patrick Harris che se la scoatta cantando e ballando come solo lui può e sa fare, c'è tanta ma tanta bellezza in questa nuova creatura.

Sembra di esser tornati ai fasti di un tempo di Pushing Daisies, piccolo capolavoro del 2007 durato troppo poco (RECUPERATELOH) in cui con una fotografia coloratissima e luminosissima prendeva vita un mondo un sacco speciale.

Stavolta la storia, originariamente di una serie di libri e già diventata film con Jim Carrey, narra dei tre fratelli Baudelaire, ricchi, orfani dall'oggi al domani e sfigatissimi che si trovano loro malgrado affidati al Conte Olaf, Neil Patrick Harris, e da lì in poi incappano appunto in una serie di sfortunati eventi.

Come in tanti già hanno notato, è un po' come se su una roba gotica qualcuno avesse messo Wes Anderson sul set a dare quella botta di simmetria e colore totalmente folle che però, ovviamente, fa svoltare il prodotto.

La maggiore dei fratelli, Violet, è sempre vestita con toni pastello, golfini, gonne bellissime e camicette deliziose, il fratello è un nerd ante litteram e la mini Sunny di 0 anni vestita quasi sempre di giallo muove la bocca a caso parlando la sua lingua sottotitolata. CIOE'.

Tra scenografie improbabili e bellissime, dialoghi che fanno davvero ridere e una trama intricatissima, il narratore della storia parla sempre in camera preparando lo spettatore a tutte le cose terribili che sta per vedere. E attenzione, l'attore che lo fa è la voce originale di KRONK di Le Follie dell'Imperatore, aka il cartone più bello di sempre.

 


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The OA. Ovvero, Senti stai esagerando

Netflix ormai c'ha preso gusto a produrre serie e stavolta, evidentemente fiducioso nelle nuove generazioni minchia troppo indie, pare abbia detto a due trentenni: “Oh scriveteci una roba, ecco un assegno, andatevi a comprare una cosina carina e tornate con otto episodi ciao”.

E così Brit Marling e Zal Batmanglij (!) hanno partorito The OA. Bello. Interessante, sicuramente innovativo. Peccato che per le prime due puntate stai lì a dire “ODDIO E' BELLISSIMO”, poi in automatico con Netflix parte l'episodio successivo e sì beh bello anche questo oh vediamo dove va a parare. Poi arrivi alla 1x06. Ecco, lì inizi a capire che qualcuno, così senza dirtelo apertamente, ti sta trollando. Volevano fare tanto i misteriosi e poi, ti sei girato un attimo e hanno mandato tutto in vacca con cose ridicole ma vi prego aiutatemi a dire RIDICOLE. La cosa tragica è che se levi le cose ridicole rimangono un sacco ma un sacco di cose positive. Tipo l'idea di fondo (quale? CHISSA'), quel bono di Lucius Malfoy che senza chioma bionda è ancora più affascinante, la protagonista (che, attenzione, è pure la sceneggiatrice a cui hanno dato l'assegno) e la sua felpa con lupo che è già storia.

I suoi genitori di cui io mi sono perdutamente innamorata,  il compagno di scuola transgender asiatico bellissimo, la fotografia azzurrina, la recitazione della maggior parte del cast. Cioè, di cose belle ce ne sono. Poi però ecco SPOILER ALERT succede che quelli fanno le coreografie di Steve LaChance per far resuscitare i morti. E ALLORA NO, Brit e Batman. STIAMO ESAGERANDO.


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Un pretty little matrimonio favola piangere

Troian Bellisario, aka Spencer Hastings di Pretty Little Liars si è sposata.

Però non è che ha preso un ristorantino svantaggiato o affittato una villa come fa laggente normale a cui poi arrivano le buste coi soldi e non sa dove infilarsele like a poraccio qualunque. NO.

Lei e suo marito, Patrick J. Adams (aka Mike Ross di Suits) si sono sposati in un boschetto, sotto una quercia, con accanto la spiaggia in California del Sud. E uno dice “vabbè matrimonio sulla spiaggia oh avanguardia pura capirai”. No. Forse non è chiaro, loro hanno organizzato un fottutissimo campeggio per gli ospiti, hanno tirato su decine di tende con materassi e cose hipster bellissime e hanno accolto tutti gli invitati in mezzo a sto bosco o quel che era con tavolate lunghe e balli e falò e amore infinito. Il tutto per un weekend che ha avuto come hashtag #fortday2016 (fatevi un favore, guardate tutte le foto su instagram e piangete per la commozione e per la bellezza diffusa, grazie) e in cui Troian ha sfoggiato un vestito bianco bellissimo, con un mega velo in cui si incastravano le foglie d'autunno, e una coroncina d'oro che manco Galadriel. E come ci vai in un posto da sogno così? Con la macchina? Col taxi? Seh, lallero, loro avevano un furgoncino stilosissimo e bellissimo su cui sono partiti con i loro amichetti più stretti. Ovviamente alla cerimonia c'erano anche le altre Pretty little liars (Shay Mitchell grande assente) e mezzo cast compresa la producer.

Tutti in lacrime, tutti disperati che hanno fatto video a Troian e Patrick che ballano, splendidi, e a Troian e il padre (per chi non lo sapesse, Donald Bellisario, uno dei producer più ricchi influenti e blabla delle serie tv quando ancora si chiamavano telefilm) che fanno altrettanto.

Post cerimonia Troian si è levata il vestito acchiappa foglie e si è infilata in un vestitino d'oro paillettato BELLISSIMO.

Menzione d'onore va alle statuine 3d sopra la torta, riproduzioni fedelissime degli sposi. La mia preferita è sicuramente quella in cui Patrick tiene i capelli a Spencer mentre vomita.

Commozione, favolosità, ricchezza e tanto, troppo amore.

Bravi raga, vvb.


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Black Mirror, i colori pastello!

Nelle scorse due stagioni Black Mirror ci ha abituato ad atmosfere delicatissime, un sacco dark e soprattutto angosciose. Ora la serie del dottor Charlie Brooker è stata comprata dall'irreprensibile Netflix che ha prodotto, intanto, 6 episodi.

Nel primo di questa stagione, l'abusatissimo tema dell' “oddio la vita online è bugia fa schifo è tutto di facciata laggente fa le cose per i like gomblottoohhh” prende una forma tutta nuova.

Bryce Dallas Howard, la roscissima e bellissima figlia di Ron è la protagonista della storia ambientata in un mondo ORRIBILE dove le persone possono e devono votarsi a vicenda in termini di simpatia e, manco a dirlo, favolosità. Più stelline hai, più probabilità hai di farcela nella vita. Hai due stelle? Meh, il mutuo non te lo danno. Ne hai una sola? NESSUNO ti vorrà parlare. Con 5 raggiungi l'olimpo degli dei e, in pratica, tutti ti invidiano e ti amano a caso.

In questo mondo un po' particolare e un po' portato all'eccesso, tutto è color pastello. Rosina. Celestino. Giallino. Le gonne sono a ruota, i capelli perfetti, i vestitini anni '50, le valigie quelle di mia nonna. Un po' tipo Pleasantville ma senza il bianco e nero. SOLO PASTELLO PER SEMPRE.

Al di là della storia, la prima puntata è una delicatezza per gli occhi, il direttore della fotografia sta evidentemente ancora ridendo e tutto è perfettamente ovattato per creare un grande, enorme, senso di disagio.

Ovviamònt le altre puntate, essendo una serie antologica come le prime due stagioni, saranno una roba completamente diversa. Ciao gente che da i voti, ciao senza rosina e ciao Bryce. A me già mancano tutti.

 


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Westworld, gente bella e un continuo WTF

Da qualche settimana sulla HBO e sul buon Sky va in onda Westworld, una serie difficile e complicata che ti lascia ad ogni fine puntata con un sincero “ma in chessenso?”.

La trama è più o meno questa: nell’anno duemilamille la gente ricca ha bisogno di un sacco d’emozioni forti perché “uh che noia la vita” e ad aiutarli ci pensa un parco divertimenti a tema western dove i visitatori vanno, fanno e disfanno quello che vogliono perché tanto sticazzi, il parco è abitato da androidi sintetici inconsapevoli. Sono perfettamente uguali agli umani ma in realtà sono bugie ambulanti, robot programmati per sollazzare i ricchi che vogliono vedere quanto faceva ridere la vita dell’epoca. Spoiler: non faceva ridere.

Mentre la gente si ammazza, i bordelli sono pieni di signorine di malaffare vestite benissimo con corsetti e reggicalze e cappelli e guanti (Thandie Newton bona come non mai, tra l’altro) , alcuni degli androidi iniziano a capire che “Mh, sarà che ci stanno perculando e stiamo vivendo una vita alla Giorno della Marmotta?”. Già. La rivoluzione è vicina ed è chiaro dalla puntata due. Evan Rachel Wood parla con un accento del Sud America, ha lo stesso vestito celeste ogni giorno, la stessa acconciatura coi boccoli ai lati della fronte e la stessa scucchia terrificante. Ogni giorno arriva James Marsden col suo cappello e la sua bonaggine, e nel frattempo dal quartier generale del parco Anthony Hopkins fa la sua porca figura col gilet e l’orologio nel taschino mentre tutti sono vestiti just like us. Ed Harris, in tutto ciò è un po’ invecchiato e se la scoatta vestito perfettamente con un cravattino foulard improbabile. Insomma, un trip incredibile che come ogni cosa in cui figura JJ Abrams come produttore esecutivo andrà in vacca in 15 secondi.

C’è di buono che la serie si basa su un film scritto e diretto da Crichton quindi forse c’è poco margine di insensatezza, ma chissà. Se volete sentirvi idioti per i 69’ di pilot e presumibilmente anche per i successivi, Westworld è tutto vostro.

 


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The young Pope: Jude Law, il papa bono.

Nel mondo accadono cose incredibili. Tipo che Sorrentino piace e riesce a vendere cose agli americani. Al principio fu La Grande Bellezza e adesso con un colpo di tacco è arrivato Il Papa giovane e bono interpretato da Jude Law.

Sky, Canal+ e HBO sono la combo micidiale che ha prodotto la miniserie del buon Paolo con un cast rispettabilissimo. Oltre al culo di Jude Law, presente in una delle prime scene e che un po’ ti ripaga di tutte le aspettative, ci sono un magistrale Silvio Orlando che mi parla pure un inglese decente, Stefano Accorsi nei panni di un gggiovane Presidente del Consiglio (Renzi anyone?) e Diane Keaton. Sorrentino è riuscito a convincere DIANE KEATON. Maybe lei aveva bisogno di soldi, Maybe Olga ha tradotto male quello che diceva il regista, ma Diane c’è ed è una suora che ha cresciuto Jude Law e che così a occhio pare cattivissima.

Inutile dire che il costumista della serie è bravone. I vestiti del Papa sono BELLISSIMI e tutta la prima puntata è un sobrio tripudio di rosso, bianco e oro ed i cappelli di Jude Law sono già storia, quasi quanto il bipolarismo del Santo Padre che interpreta. Dicono tutti che Sorrentino o lo ami o lo odi e insomma pure qua l’effetto “o sei con me o sei contro di me” è abbastanza forte. Stai i primi minuti a farti le menate su cosa rispondere quando ti chiederanno cosa ne pensi, poi Jude fuma una sigaretta e di queste sottigliezze tipo “AH CHE FOTOGRAFIA RAGAZZI CHE FOTOGRAFIA!” te ne sbatti altamente perché ti ricordi che lui era Alfie e giocava a biliardo in camicia blu mentre fumava. E ad Alfie tu DEVI voler bene. Anche a Silvio Orlando, che gli devi fare se non abbracciarlo stretto stretto ricordandoti di quando interpretava il Professore ne La Scuola?

E le prime decine di minuti passano così mentre ti aspetti un fenicottero o una giraffa che spuntino in Piazza San Pietro, ma al loro posto purtroppo c’è solo un grande green screen improbabile che fa da sfondo a un Papa che fa il suo primo discorso sensato nella storia della Chiesa.

La seconda stagione, ovviamente, è già stata riconfermata. Perché Sorrentino può, noi un po’ meno.

 


IO VERAMENTE LA FAVOLOSITA'

LA FAVOLOSA RUBRICA SPIN-OFF DI IO VERAMENTE GUARDA

di Francesca Giorgetti

29 anni, ultimamente romana ma pratese per sempre. Appassionata a livelli patologici di serie tv e Maria De Filippi. Lavora in tv e scrive di serie anche su Io Veramente Guarda.

 

Good American e Kyle Cosmetics alla conquista del mondo.

Se siete persone degne di camminare questa terra, sapete indubbiamente che il clan Kardashian-Jenner sta lentamente, ma inesorabilmente, conquistando il mondo.

Facendo finta che la tragedy avvenuta a Kim due settimane fa non ci tocchi nel profondo (non la vediamo sui social da allora, se non si palesa a breve faccio un macello), questi ultimi giorni sono stati molto importanti per la nostra amichetta Khloè e per quella stupida di Kylie.

La prima proprio ieri ha lanciato nel mercato la sua marca di jeans, la Good American, dalla taglia 0 alla 24, perché sì. Lei che prima era un po’ cicciotta (e pare che Trump nel 2009 l’abbia cacciata da The Apprentice proprio per quello. Come se non avessimo già abbastanza motivi per disprezzarlo) e che ora si sfonda di palestra ma ha comunque un fondoschiena delicatissimo, ne sa a tranci dei dramah nel trovare dei jeans se sei formosa (NON curvy, quello è un termine orribile che nessuno dovrebbe usare mai).

Se vi va di fare un giro sul sito e piangere sul conto corrente, fatelo, ma il più economico costa 135$ e allora ciao Khloè ciao.

Kylie, piccola imprenditrice che non è altro, sta per lanciare la sua Burgundy palette con colori sobri ed eleganti come solo lei sa fare, a due settimane di distanza dai nuovi altrettanto sobri lipkit. Questa ventenne sta costruendo un impero e noi qua, a chiederci perché lei sì e noi no.

Tra l’altro, solo grazie allo shipping a 5$, ho finalmente tra le mani il mio lipkit.

Posie K, che era in pratica l’unico mettibile e non sold out. Raga io vi giuro non ci credevo mai ma è FAVOLOSO. Non se ne va nemmeno con litri di acqua micellare. Tiene come se non ci fosse un domani e soprattutto arriva in una scatola adorabilmente tamarra con dentro un cartoncino su cui c’è scritto quanto Kylie ci ringrazi per aver comprato le sue cosine, quanto si sia divertita a farlo e quanto spera che ce lo godremo tanto, sto lipkit, perché lei ci ha messo il cuore e l’anima.

Kylie, Khloè, insegnateci a vivere, vi prego.

 

Girls sta finendo: riusciremo a superarla?

Nel 2012 è successa una cosa molto bella: Judd Apatow ha deciso di produrre Girls, una serie BELLISSIMA scritta da Lena DunhamSettimana scorsa sono ufficialmente finite le riprese di quella che sarà la quinta e forever ultima stagione. Lena, che è una bella persona, ha condiviso su instagram pensieri struggenti sull'addio alla sua creatura. Io ho pianto molto, molti hanno pianto altrettanto. E sembra giusto ricordare, nonostante ancora il finale di serie non sia andato in onda, quanto stile e quanta bellezza questa stupida trentenne newyorkese abbia saputo regalarci.

Jemima Kirke, sua amichetta dal liceo e donna di una bonaggine rara, oltre ad essere Jessa, un personaggio adorabilmente complesso, è anche una vera e propria icona di stile ad minchiam. SOLO LEI può permettersi le jumpsuits, i vestitoni lunghissimi, i cappelli e le sciarpe che indossa nella serie e che fanno mettere in discussione l'orientamento sessuale di moltissime donne. Affascinante come lei, nessuno mai.

Allison Williams, bella ma freddina come poche, in quanto a stile non ha mai sfornato particolari perle (tranne la svolta boho che ancora oggi tento di rimuovere) ma in compenso vi prego guardate i post di Lena sull'ultimo giorno di riprese e piangete insieme a me per quelle faccine distrutte.

Zosia Mamet, per lei solo applausi. E' passata da disagiata con i vestiti e le acconciature che manco una koreana che sta a ròta per Hello Kitty ad un donnino di tutto rispetto vestita bene ed elegante e con la classica pettinatura di tutte le attrici di tutte le serie tv americane.

Di Hannah/Lena già se ne parlò e adesso, alla fine di questi 5 anni in cui una ragazza ci ha insegnato che in tv ci possiamo andare anche noi, ma proprio noi-noi, possiamo solo urlarle addosso GRAZIE LENA, SEI MEJO TE, TORNAH!

Orange is the new black: una quarta stagione un sacco hardcore.

Sono ormai 3 anni che Netflix ci sollazza con gli episodi di Orange is the new black. Quest’anno la serie che racconta la vita in carcere di un peculiare gruppo di donne è arrivata alla quarta stagione e oh, il mood è cambiato TANTISSIMO. Siamo infatti di fronte ad un cambio di rotta incredibbole amigi

“Na cifra dark” potrebbe essere la recensione più breve e puntuale da fare, forse. Diciamo però che le nostre eroine marce con la divisa arancione si stanno un sacco facendo prendere la mano dall’ambiente orribile che le circonda e stanno diventando cattivissime. Come sempre, ogni nuova arrivata ha la tuta color beigiolino-morte d’ordinanza e deve tentare di sopravvivere in mezzo ad assassine, narcotrafficanti, rapinatrici o più semplicemente psicopatiche. Se in carcere tutte le donne sono vestite forzatamente uguali, però, è grazie ai flashback che vediamo le protagoniste nella loro dimensione originale e ci possiamo godere gli outfit improbabili di alcune di loro. Indimenticabile è la mise di Pennsatucky, meth head matta, quando stagioni or sono abbiamo scoperto come era finita in galera inspiegabilmente non per i capelli mezzi biondi e mezzi castani ma facendo una strage in una clinica abortista perché le avevano vietato di abortire per la centosettantesima volta. You go girl! E Maritza, la bonissima con artist, ci delizia nel suo flashback con fascianti tubini delicati e orecchini tondi grandi come una vera latina del ghetto. Niente a che vedere con i look castigati e noiosi di Piper, ei fu protagonista ormai relegata a mero personaggio secondario, addirittura sotto, per livello d’importanza, ad Alex e i suoi occhiali meravigliosi.

Un girl power che veramente levatevi tutti, comunque.